La normalità agli occhi di un bambino
Andando a ritroso negli anni, tra i fotogrammi ormai sbiaditi dal tempo, alcune scene meglio conservate nella memoria, sembrerebbero estrapolate da una pellicola del cinema neorealista. Era ancora la fine degli anni '50 e non frequentavo ancora la scuola elementare.
All'epoca gli unici elettrodomestici presenti in casa nostra erano le lampadine. Persino il ferro da stiro funzionava ancora con la carbonella. Mia madre in tutte le stagioni, cantando lavava i panni nella “pila” (lavatoio domestico) del cortile. Il tetto della casa in affitto aveva sempre le tegole fuori posto, perché Giovanni, il figlio della padrona di casa, lo usava come campo da gioco.
Sicuramente avrebbe necessitato di qualche manutenzione, ma mio padre, benché di professione muratore, non era autorizzato a farla, cosicché la copertura della casa si deteriorava sempre di più. Se pioveva, dopo un po' non c'era bisogno di affacciarsi all'esterno per osservare il fenomeno, perché di fretta bisognava requisire tutti i recipienti che si avevano in casa, disporli sotto i vari “stizzèri” (gocciolatoi) e poi insieme allo spettacolo, ascoltare il concertino creato dal rirmo del gocciolio.
Ricordo che una volta la pioggia fu così copiosa, da scorrere lungo la parete vicina al mio lettino, fin sul pavimento e formare un laghetto. Ma cosa c'era mai di grave, in fondo era solo acqua! Questa era la nostra condizione di vita in quell'epoca, molto modesta, magari con qualche precarietà, ma tutto sommato abbastanza tranquilla, improponibile se confrontata col tenore di vita attuale, ma per quei tempi una realtà del genere non sarebbe stata tanto dissimile da quella di chissà quante altre famiglie ancora e soprattutto quella era “la normalità agli occhi di un bambino”.
Nei giorni di festa si poteva uscire, anche d'inverno, con qualche piccola acrobazia. I miei genitori, io e il mio fratellino maggiore, montando in sella alla Vespa (la nostra macchina) andavamo a fare visita ai nonni e dai parenti, che ci accoglievano con gioia. Si sentiva il profumo di bucce di mela nel braciere.
Momenti un po' speciali erano le domeniche d'estate, quando già dalla mattina l'odore del sugo e polpette profumava l'aria e tutto era quasi pronto: la tavola apparecchiata al centro della stanza, con la tovaglia bianca, l'acqua, il vino e il pane, essenziale ed austera, da incutere un senso di rispetto in noi bambini, sembrava quasi un altare.
Pio il papà mi faceva sentire importante, affidandomi un compito da eseguire al momento. Io aspettavo con impazienza quell'occasione, perché il solo pensiero di poter correre mi elettrizzava.
Mi mandava a comprare 10 Lire di ghiaccio nella “putia” (negozio) della “Brancaliuna” (soprannome). Con la monetina in mano, inseguito dai miei talloni, correvo a più non posso per quei 60 metri fino al crocevia della via Nazionale. Un'occhiata a sinistra e poi a destra, lo attraversavo, un balzo ancora ed ero arrivato già dentro il negozio.
La “putiara” (negoziante) estraeva una tavoletta fumante dal frigo e la avvolgeva appena in parte con un ritaglio di cartapaglia gialla. Con quel piccolo “lusso” tra le mani, prodotto della tecnologia avanzata dell'epoca, percorrevo la strada a ritroso, in fretta per non sciupare quella rara fonte di refrigerio nella torrida stagione. Quando mio padre lo spezzava, un po' per l'acqua, un po' nel vino, come fosse l'inizio di una cerimonia, cominciavamo a pranzare.